23 gennaio 2005

Racconti dal treno: il piccolo capotreno

La scorsa settimana è stata un vero disastro. Non parlo dei treni, che comunque ce l'hanno messa tutta per complicarmi la vita, ma di una serie di piccoli grandi guai, come la perdita del cellulare poi fortunosamente ritrovato, la rottura di un monitor fondamentale, e tante altre cosette. Per colpa di questi accidenti, venerdì ho cercato di prendere un treno diverso dai soliti, che avrebbe dovuto partire dalla Centrale alle dodici e quindici. Non credo di stupire nessuno annunciando che è partito con quaranta minuti di ritardo, che sono oi diventati un'ora per superamenti di vari treni intercity che nessuno si è sognato di dirci che avremmo potuto prendere per arrivare prima.
Quando è passato il capotreno, gli ho chiesto la solita cosa che chiedo a tutti, e cioè come si fa a parlare con questo fantomatico referente di direttrice di cui adesso, grazie all'incidente di giovedì, so con certezza il nome.
E il capotreno, che evidentemente non ne poteva più, ha cominciato a raccontarmi un sacco di cose su queste sciagurate ferrovie. Molte le sapevo già, molte le immaginavo: storie di corruzione, di lotte interne di potere, e soprattutto di continue dimostrazioni della validità del principio di Peter: In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza. Molte le ho imparate, alcune interessanti, alcune inimmaginabili. Ma non è di questo che voglio parlarvi. È del commiato, che mi ha colpito in modo particolare.
Quando infatti il treno ansimante e stanco stava per arrivare a Brescia, il capotreno mi ha detto: «Beh, comunque, a me tutto questo non interessa molto: ancora tre anni e mezzo, e ho finito.» Io gli ho risposto: «Stia attento, perché poi da pensionato la ripescano e la mettono a fare il tutor di linea» cioè l'incarico su cui avevamo cominciato a discutere e che lui considerava, con ragione, in maniera alquanto dispregiativa.
«Impossibile», mi ha risposto, «me ne vado in Ucraina. Cosa vuole, con la pensione che mi daranno qui certo non posso vivere. Ho già comprato una casa e il terreno... spero solo che la mafia non mi dia fastidio».
Ecco, questa è la conclusione di una vita di lavoro umile ma non certo facile: essere costretto a fare l'emigrante alla rovescia: non quello che va lontano a lavorare e poi torna al suo paesello a godersi gli anni della vecchiaia, ma quello che dopo aver lavorato tutta la vita per il suo paese viene buttato fuori con tanti, anzi con pochi ringraziamenti. Bello il risultato delle politiche pensionistiche dei nostri illuminati governanti.
Tanti auguri, piccolo gentile controllore che mi hai fatto passare un'ora piacevole: mentre i tuoi tronfi capi continueranno a declamare che i treni funzionano benissimo, incassando laute prebende e rubando su appalti e concessioni, tu coltiverai il tuo campicello e guarderai crescere l'insalata. Ma ne sono certo, sarai più felice tu.

A proposito, se volete sapere la causa dell'ora di ritardo con cui ho cominciato questo racconto, eccola: massimizzazione del profitto uguale riduzione del personale, per cui, a causa del ritardo di un altro treno, mancavano i macchinisti che facessero marciare il nostro.

Signori dirigenti delle ferrovie, siete dei cialtroni.